Leggere qualcosa che ti descriva così bene senza che in realtà lo scittore pnsi a te, anzi nemmeno sappia che esisti. Lascia senza fiato.
Passano gli anni e invece di 10 sono molti di più, ma trovi qualcosa di diverso?
no , assolutamente no.
Come allora mi capita di assentarmi, da tutto e da tutti. E come alllora gli altri si domandano cosa stia pensando e che mi stia succedendo.
Due parole su Peter
Quando Peter Fortune aveva dieci anni, i grandi
dicevano che era un bambino difficile. Lui però
non capiva in che senso. Non si sentiva per niente
difficile. Non scaraventava le bottiglie del latte
contro il muro del giardino, non si rovesciava
in testa il ketchup facendo finta che fosse sangue,
e neppure se la prendeva con le caviglie di sua nonna
quando giocava con la spada, anche se ogni
tanto aveva pensato di farlo. Mangiava di tutto,
tranne, s’intende il pesce, le uova, il formaggio e
tutte le verdure eccetto le patate. Non era più rumoroso,
più sporco o più stupido degli altri bambini.
Aveva un nome facile da dire e da scrivere e
una faccia pallida e lentigginosa, facile da ricordare.
Andava tutti i giorni a scuola come gli altri e
senza fare poi tante storie. Tormentava sua sorella
non più di quanto lei tormentasse lui. Nessun
poliziotto era mai venuto a casa per arrestarlo.
Nessun dottore in camice bianco aveva mai proposto
di farlo internare in un manicomio. Gli pareva,
tutto sommato, di essere un tipo piuttosto facile.
Che cosa c’era in lui di così complicato?
Fu solo quando era ormai già grande da un pezzo
che Peter finalmente capì. La gente lo considerava
difficile perché se ne stava sempre zitto. E a
quanto pare questo dava fastidio. L’altro problema
era che gli piaceva starsene da solo. Non sempre
naturalmente. Nemmeno tutti i giorni. Ma per
lo più gli piaceva prendersi un’ora per stare tranquillo
in qualche posto, che so, nella sua stanza,
oppure al parco. Gli piaceva stare da solo, e pensare
i suoi pensieri.
Il guaio è che i grandi si illudono di sapere che
cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci
anni. Ed è impossibile sapere di una persona che
cosa pensa, se quella persona non lo dice. La gente
vedeva Peter sdraiato per terra un bel pomeriggio
d’estate, a masticare un filo d’erba o a contemplare
il cielo. «Peter! Peter! A che cosa pensi?»
gli domandavano. E Peter si rizzava a sedere di soprassalto
dicendo: «A niente. Davvero!» I grandi
sapevano che nella sua testa qualcosa doveva pur
esserci, ma non riuscivano né a vedere né a sentire
che cosa. Dirgli di smettere non potevano, non
sapendo che cosa stesse facendo. Magari stava pensando
di dare fuoco alla scuola, o di dare sua sorella
in pasto a un alligatore, o di scappare di casa
a bordo di una mongolfiera, ma loro non vedevano
altro che un ragazzino tutto preso a contemplare
il cielo senza battere ciglio, un ragazzino che,
se qualcuno lo chiamava, neppure rispondeva.
Quanto a stare per conto suo, be’, neanche quello
ai grandi andava giù. A mala pena sopportano
che lo faccia uno di loro. Se ti unisci alla compagnia,
la gente sa che cosa ti passa per la mente. Perché
è la stessa cosa che sta passando per la mente
degli altri. Se non vuoi fare il guastafeste, devi
unirti alla compagnia. Ma Peter non la pensava così.
Non aveva niente in contrario a stare con gli al-
tri quando era il caso. Ma la gente esagera. Anzi,
secondo lui, se si fosse sprecato un po’ meno tempo
a stare insieme e a convincere gli altri a fare lo
stesso, e se ne fosse dedicato un po’ di più a stare
da soli e a pensare a chi siamo e chi potremo essere,
allora il mondo sarebbe stato un posto migliore,
magari anche senza le guerre.
A scuola Peter spesso lasciava Peter seduto nel
banco, mentre la sua mente partiva per lunghi
viaggi, ma anche a casa gli era capitato di avere
delle noie per quei sogni a occhi aperti. Un Natale
il padre di Peter, Thomas Fortune, stava sistemando
le decorazioni in soggiorno. Detestava fare
quel lavoro. Diventava sempre di cattivo umore.
Quella volta, doveva attaccare dei nastri in alto
in un angolo. Be’, proprio in quell’angolo c’era una
poltrona e seduto su quella poltrona a fare niente
di speciale, c’era Peter.
– Non ti muovere, – disse Mr Fortune. – Adesso
salgo sulla poltrona per arrivare al muro.
– Va bene, – disse Peter. – Fa’ pure.
Ed ecco Mr Thomas Fortune salire sopra la poltrona,
e Peter salire in groppa ai suoi pensieri. A
vederlo si sarebbe detto che non faceva nulla, ma
in realtà era occupatissimo. Si stava inventando
un modo emozionante di scendere dalle montagne
con un attaccapanni e una corda ben tesa tra due
pini. Continuò a pensarci mentre suo padre stava
ritto sullo schienale della poltrona, ansimando e
stirandosi per arrivare al soffitto. Come si poteva
fare, pensava intanto Peter, per scivolare senza andare
a sbattere negli alberi che tenevano la corda?
Chissà, forse l’aria di montagna stuzzicò l’appetito
di Peter. Fatto sta che in cucina c’era un
pacchetto nuovo di biscotti al cioccolato. Non era
bello continuare a ignorarli. Peter non fece in tempo
ad alzarsi che sentì alle sue spalle un orrendo
frastuono. E si voltò proprio mentre suo padre cadeva
a testa prima nel buco tra la poltrona e il muro.
Poi Mr Fortune riapparve, per prima la testa
di nuovo. Sembrava deciso a fare Peter a pezzettini.
Dall’altra parte della stanza, la mamma si teneva
stretta la mano sulla bocca per non farsi sorprendere
a ridere.
– Oh, scusa papà, – disse Peter. – Mi ero dimenticato
che eri lì.
"l'inventore di sogni"
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