Visualizzazioni totali

mercoledì 8 dicembre 2010

peter o fsn?


Leggere qualcosa che ti descriva così bene senza che in realtà lo scittore pnsi a te, anzi nemmeno sappia che esisti. Lascia senza fiato.
Passano gli anni e invece di 10 sono molti di più, ma trovi qualcosa di diverso?
no , assolutamente no.
Come allora mi capita di assentarmi, da tutto e da tutti. E come alllora gli altri si domandano cosa stia pensando e che mi stia succedendo.


Due parole su Peter



Quando Peter Fortune aveva dieci anni, i grandi



dicevano che era un bambino difficile. Lui però



non capiva in che senso. Non si sentiva per niente



difficile. Non scaraventava le bottiglie del latte



contro il muro del giardino, non si rovesciava



in testa il ketchup facendo finta che fosse sangue,



e neppure se la prendeva con le caviglie di sua nonna



quando giocava con la spada, anche se ogni



tanto aveva pensato di farlo. Mangiava di tutto,



tranne, s’intende il pesce, le uova, il formaggio e



tutte le verdure eccetto le patate. Non era più rumoroso,



più sporco o più stupido degli altri bambini.



Aveva un nome facile da dire e da scrivere e



una faccia pallida e lentigginosa, facile da ricordare.



Andava tutti i giorni a scuola come gli altri e



senza fare poi tante storie. Tormentava sua sorella



non più di quanto lei tormentasse lui. Nessun



poliziotto era mai venuto a casa per arrestarlo.



Nessun dottore in camice bianco aveva mai proposto



di farlo internare in un manicomio. Gli pareva,



tutto sommato, di essere un tipo piuttosto facile.



Che cosa c’era in lui di così complicato?



Fu solo quando era ormai già grande da un pezzo



che Peter finalmente capì. La gente lo considerava



difficile perché se ne stava sempre zitto. E a



quanto pare questo dava fastidio. L’altro problema



era che gli piaceva starsene da solo. Non sempre



naturalmente. Nemmeno tutti i giorni. Ma per



lo più gli piaceva prendersi un’ora per stare tranquillo



in qualche posto, che so, nella sua stanza,



oppure al parco. Gli piaceva stare da solo, e pensare



i suoi pensieri.



Il guaio è che i grandi si illudono di sapere che



cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci



anni. Ed è impossibile sapere di una persona che



cosa pensa, se quella persona non lo dice. La gente



vedeva Peter sdraiato per terra un bel pomeriggio



d’estate, a masticare un filo d’erba o a contemplare



il cielo. «Peter! Peter! A che cosa pensi?»



gli domandavano. E Peter si rizzava a sedere di soprassalto



dicendo: «A niente. Davvero!» I grandi



sapevano che nella sua testa qualcosa doveva pur



esserci, ma non riuscivano né a vedere né a sentire



che cosa. Dirgli di smettere non potevano, non



sapendo che cosa stesse facendo. Magari stava pensando



di dare fuoco alla scuola, o di dare sua sorella



in pasto a un alligatore, o di scappare di casa



a bordo di una mongolfiera, ma loro non vedevano



altro che un ragazzino tutto preso a contemplare



il cielo senza battere ciglio, un ragazzino che,



se qualcuno lo chiamava, neppure rispondeva.



Quanto a stare per conto suo, be’, neanche quello



ai grandi andava giù. A mala pena sopportano



che lo faccia uno di loro. Se ti unisci alla compagnia,



la gente sa che cosa ti passa per la mente. Perché



è la stessa cosa che sta passando per la mente



degli altri. Se non vuoi fare il guastafeste, devi



unirti alla compagnia. Ma Peter non la pensava così.



Non aveva niente in contrario a stare con gli al-



tri quando era il caso. Ma la gente esagera. Anzi,



secondo lui, se si fosse sprecato un po’ meno tempo



a stare insieme e a convincere gli altri a fare lo



stesso, e se ne fosse dedicato un po’ di più a stare



da soli e a pensare a chi siamo e chi potremo essere,



allora il mondo sarebbe stato un posto migliore,



magari anche senza le guerre.



A scuola Peter spesso lasciava Peter seduto nel



banco, mentre la sua mente partiva per lunghi



viaggi, ma anche a casa gli era capitato di avere



delle noie per quei sogni a occhi aperti. Un Natale



il padre di Peter, Thomas Fortune, stava sistemando



le decorazioni in soggiorno. Detestava fare



quel lavoro. Diventava sempre di cattivo umore.



Quella volta, doveva attaccare dei nastri in alto



in un angolo. Be’, proprio in quell’angolo c’era una



poltrona e seduto su quella poltrona a fare niente



di speciale, c’era Peter.



– Non ti muovere, – disse Mr Fortune. – Adesso



salgo sulla poltrona per arrivare al muro.



– Va bene, – disse Peter. – Fa’ pure.



Ed ecco Mr Thomas Fortune salire sopra la poltrona,



e Peter salire in groppa ai suoi pensieri. A



vederlo si sarebbe detto che non faceva nulla, ma



in realtà era occupatissimo. Si stava inventando



un modo emozionante di scendere dalle montagne



con un attaccapanni e una corda ben tesa tra due



pini. Continuò a pensarci mentre suo padre stava



ritto sullo schienale della poltrona, ansimando e



stirandosi per arrivare al soffitto. Come si poteva



fare, pensava intanto Peter, per scivolare senza andare



a sbattere negli alberi che tenevano la corda?



Chissà, forse l’aria di montagna stuzzicò l’appetito



di Peter. Fatto sta che in cucina c’era un



pacchetto nuovo di biscotti al cioccolato. Non era



bello continuare a ignorarli. Peter non fece in tempo



ad alzarsi che sentì alle sue spalle un orrendo



frastuono. E si voltò proprio mentre suo padre cadeva



a testa prima nel buco tra la poltrona e il muro.



Poi Mr Fortune riapparve, per prima la testa



di nuovo. Sembrava deciso a fare Peter a pezzettini.



Dall’altra parte della stanza, la mamma si teneva



stretta la mano sulla bocca per non farsi sorprendere



a ridere.



– Oh, scusa papà, – disse Peter. – Mi ero dimenticato



che eri lì.
"l'inventore di sogni"

Nessun commento:

Posta un commento